Durante le vacanze di Natale ho letto un libro intitolato “Un anno sull’altipiano”, un meraviglioso libro scritto da Emilio Lussu, un ufficiale della Brigata Sassari che ha preso parte al Primo conflitto mondiale. Questo libro è stato pubblicato nel 1938 per la prima volta ma si svolge tra il 1916 e 1917, nel pieno della guerra, e quasi sempre in trincea in modo da descriverla così bene che al lettore sembra di vivere, soffrire e combattere col sentimento e l’anima coi soldati italiani e gli amici dell’autore. Il libro è narrato in prima persona e parla della vita dell’autore nel pieno della guerra anche se parla non solo la sua di vita ma anche quella dei suoi compagni o amici e compagni d’armi da anni, come il tenente Avellini. Questo libro potrebbe essere descritto a primo impatto come il classico “mappazzone” che danno le professoresse da leggere sulla Grande Guerra o su un determinato argomento storico e in effetti all’inizio potrebbe sembrarlo dato che è pieno di spiegazioni delle parole tipiche del linguaggio militare. Ma successivamente ci si appassiona alla lettura e si possono provare le stesse sensazioni che un soldato provava durante la guerra. In questo fantastico libro non sono descritte bene solo la vita di trincea e la guerra ma anche la perdita, la morte, la sofferenza, cosa significa soffrire; si capisce come la morte in guerra gioca con noi come il gatto col topo e come la speranza resti e sopravviva nei soldati.
Ad un certo punto del libro un colonnello dice che la vera guerra non la vince chi ha i migliori armamenti o l’esercito più addestrato alla lotta, ma chi ha i barili di liquori più pieni e chi ha un esercito addestrato a bere di più infatti esso si stupisce del fatto che Lussu fosse stato astemio. Questa è una cosa triste e parzialmente vera dato che se non fossero arrivate le “corvet” (camioncini/macchine che portavano i rifornimenti in trincea) con i barili di cognac l’esercito (per lo più non astemio in liquori) si sarebbe rivoltato perché i liquori erano l’unico mezzo per dimenticare o per non soffrire e rallegrarsi. Un’altra parte che mi ha colpito è quando avviene una discussione tra gli ufficiali su come sarebbe una diserzione fatta bene e da questo argomento si arriva al perché disertare. Un ufficiale fa notare che dovevano disertare non solo per evitare di morire ma anche perché non potevano combattere in condizioni peggiori. A questo punto l’ufficiale porta un esempio: le scarpe “nuove” con su scritto in caratteri cubitali ITALIA fatte apposta per l’inverno che si rivelarono fatte di cartone e inadatte alla neve. Una caratteristica forte secondo me è come Lussu parla della morte, con scioltezza fredda o con disinvoltura quasi abituale che fa pensare a che strage è stata la Prima Guerra Mondiale.
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